Se avessi fatto il fumettista, sogno che cullavo da ragazzino prima di arrendermi all’evidenza di avere mani ben poco nobili e decidere così di impiegare altrove il mio talento per l’eufemismo, oggi sarei molto arrabbiato con Jeff Lemire. Non un oggi generico, ma proprio oggi, giorno in cui sono seduto a scrivere davanti al PC dopo aver finito di leggere L’Acchiapparane.

A volte tendo a dimenticarmi del Lemire autore completo: colpa del Lemire sceneggiatore prolifico, che sforna serie di alto livello una dietra l’altra (Gideon Falls, per citarne una di cui ho già parlato qui su Players, Black Hammer o Ascender, per rimanere sul recente), ma l’autore canadese è in grado di dire la sua anche con la matita in mano (Essex County è lì a ricordarcelo).

I TRATTI RAPIDI DE L’ACCHIAPPARANE

Lo stile del Lemire disegnatore è, paradossalmente, è molto diverso da quello dello sceneggiatore. Laddove i suoi testi sono meccanismi precisi, sia che indaghino le profondità dell’animo umano, sia che affondino nel horror metafisico attraverso le dimensioni, il suo tratto è più ruvido, nervoso, spigoloso, vicino alla schizzo anche quando ripassato dalla china.

Se questo è vero in generale, lo è in particolare per L’Acchiapparane, dove Lemire lascia largo spazio ai grigi e i neri solcati dalla grafite sulla tavola, permettendo loro di emergere al di sotto del velo degli acquarelli e del nero delle chine. Quelli sulla tavola sono panorami accennati, in cui si muovono figure delineate da tratti rapidi, nervosi e sfumati, come il ricordo fumoso di un sogno poco prima del risveglio, quello da cui è appena riemerso (e se invece si fosse appena immerso?!) il protagonista della graphic novel di Lemire. 

In questa atmosfera onirica e rarefatta si muove il suo protagonista, un uomo avanti con gli anni, spiazzato dalla camera d’albergo in cui si risveglia, allo stesso tempo sconosciuta e familiare, ma ancora di più dalle rane inchiodate alla porta della stanza di fronte. Rane: proprio come quelle che cercava di catturare il bambino che gli è apparso in sogno. O era un ricordo d’infanzia? E perché adesso quel bambino si trova nel  hotel e lo sta mettendo in guardia su ciò che si cela al di là di quella porta?

L'ACCHIAPPARANE

UNA INEVITABIE INCOMBENZA

In un certo senso, L’Acchiaparane è un po’ una sintesi della produzione di Lemire, un punto di incontro tra la sua capacità di scavare nell’inconscio dell’animo umano e la sua pulsione verso l’horror, verso che quelle suggestioni inspiegabili che inquietano prima di spaventare. Qui il grande tema è la morte: che l’uomo nella stanza di hotel sia in una brutta situazione lo si capisce fin dalle prime pagine, da quando le mani del ragazzino nel sogno/ricordo si fondono fino a diventare rami prima e poi gli spazi neri di una radiografia al costato. 

 La sensibilità dell’autore canadese, però, lo porta oltre la “semplice” riflessione sulla paura di andarsene, trattata quasi come una necessità, un’incombenza a cui cui di fondo non ci si può sottrarre. E quando la fine si avverte come imminente, allora, meglio lasciarsi cullare dai ricordi: quale peso hanno nella valutazione della propria esistenza? E che ruolo hanno che nel processo di accettazione di ciò che si è stati?

Lemire mette a confronto, letteralmente, la prima e l’ultima età della vita, la spinta alla scoperta e l’impulso di conservare ciò che è stato, due pulsioni contrastanti che si ritrovano loro malgrado a coesistere e collaborare. Un’allegoria semplice, ma efficace, ma forse può risultare un po’ stantia se tradotta a parole, ma che Lemire riesce a valorizzare attraverso il segno grafico e intuizioni visuali potenti e graffianti. 

L'Acchiapparane

UN’URGENZA ESPLOSIVA

E qui ritorno al mio livore iniziale, un’arrabbiatura che sa di invidia, perché nei gesti e nei segni che compongono L’Acchiaparane si avverte l’urgenza di Lemire, la necessità di comunicare esplosa attraverso una matita e trasformatasi in disegni, secchi, decisi, efficaci. Un centinaio abbondante di pagine che si leggono tutte d’un fiato, allo stesso modo in cui trasmettono l’impressione di essere state disegnate, frutto di un urgenza che il lettore avverte e che lo costringe a rimanere agganciato fino all’ultima vignetta a quelle pagine fatte silenzi pesanti che lasciano a sguardi e dettagli il compito di esprimersi. 

Per quanto L’Acchiapparane non sia l’opera migliore di Lemire (per la bontà di altre sue produzioni più che per demeriti di questa), è un fumetto da cui filtra grezza e pura la sua abilità di narratore a tutto tondo. Una dote che consente di tradurre in immagini le emozioni e farne storie. Una di quelle poche abilità che mi portano a provare invidia nei confronti di qualcuno.

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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